Psicologia della famiglia in crisi: ridisciplina del patto educativo tra mezzi attuali ed autonomia privata

Di: Avv. Erasmo Avella

 

Scopo del presente scritto, partendo dalla nascita del vincolo, sia esso coniugale o di famiglia di fatto o, comunque, dalla nascita del patto di famiglia inteso nella sua accezione di patto educativo genitoriale nella sua tritticità padre-madre-figli, è quello di analizzare oggi, in particolare, gli elementi che concorrono a determinare la stabilità o, al contrario, la disgregazione della famiglia.

Nell’esperienza professionale si è potuto verificare come vi siano unioni o meglio patti familiari-educativi che falliscono malgrado vi siano delle basi ottimali, mentre si è potuto constatare come altre unioni rimangano ben solide nonostante conflitti e crisi.

Si è constatato come la quasi totalità dei singoli soggetti componenti l’unione che hanno dato vita al patto familiare-educativo attribuiscono non all’interno della loro coppia la vera causa dello stress familiare e dell’insoddisfazione personale, mentre lo attribuiscono ad altri fattori, tutti esterni alla coppia stessa: la letteratura annovera, ad esempio, la carenza di nuove o più aperte relazioni sociali, di stimolanti interessi extra-domestici, o la necessità di una diversa abitazione, o di un altro figlio etc.

Quando ciò inizia ad accadere il conflitto di coppia aumenta, le provocazioni si intensificano e la situazione diviene progressiva­mente intollerabile: i singoli soggetti – coniugi o genitori che siano – iniziano così a vedersi ed a sentirsi loro come i primi colpevoli o i cattivi creatori del loro fallimento familiare-progettuale e la conseguenza è che tutto ciò porta ad un coinvol­gimento dei loro figli nel loro conflitto.

Appare così consequenziale, così come deriva dalla esperienza professionale, come solo quando la coppia genitoriale, formatrice del patto familiare-educativo, riesce ad identificare nella loro stessa relazione di coppia il fallimento del loro progetto, allora si confida possano iniziare a pensare e a cercare una consona soluzione ai loro problemi e a richiedere, magari, un aiuto esterno.

Cosa accade sovente: individual­mente, si rivolgono dapprima agli amici, ai parenti, spesso ai sacerdoti o agli avvocati, infine (singolarmente o in coppia) è possibile che contattino anche uno psicologo o un consulente familiare (G. Santi, 1981), ma ciò che l’esperienza ha portato a constatare è che però tali soggetti spesso attuano un loro intervento controproducente e de­leterio per un accordo coniugale, nuovo e ridisciplinante il patto educativo genitoriale originario ed ora non più attuale.

È noto in letteratura scientifica come i tradi­zionali modelli operativi oggi applicati dagli esperti, a cui i singoli soggetti in crisi si rivolgono, spesso si rivelano invece che utili per la coppia in crisi, dan­nosi.

Questo scritto nasce in specie da una osservazione inerente a un quesito posto: se vi sono disturbi psichici dei genitori se­parati derivanti dalla loro separazione – sia essa fondata su coppia coniugata che non coniugata.

La risposta a tale quesito deve prendere le mosse da un ulteriore quesito ovvero se esista un rapporto di causalità tra la condizione di coppia in crisi e la presenza di eventuali disturbi psichici negli adulti formanti la coppia.

E da ultimo se la separazione della coppia rappresenti solo un fattore consequenziale o invece se sia la stessa separazione – se necessaria – che diviene un sintomo di un futuro e più complesso quadro di anomalie della persona­lità della coppia, separata o separanda, analizzando poi in quale misura la conseguente – dalla avvenuta separazione – situazione di disturbo psicologico dei genitori incida sulle loro relazioni coi figli e sul loro normale sviluppo.

Non sappiamo se sia possibile rispondere in modo esauriente ai sopra indicati quesiti, però sin da ora si può affermare, come è stato dimostrato, l’esistenza di uno stretto rapporto esistente fra status coniugale da un lato e psicopatologia dall’altro (cfr. per tutti B.L. Bloom e coll., 1978). Le persone separate o divor­ziate sono sovrarappresentate all’interno della popolazione psichia­trica (M.A. Crago, 1972; A.W. Radick e C. Johnson, 1974; S. Bellin e R.H. Hardt, 1958) ed inoltre contraggono con più probabilità ma­lattie fisiche (T.H. Holmes e M. Masuda, 1974), mostrano problemi alcoolici (E. Rosenbaum, 1958; R. Woodruff e coll., 1972; E.M. Jel­linek, 1952) e comportamenti sociopatici (J. Morrison, 1974) in mi­sura maggiore rispetto alle persone coniugate o non sposate ( cfr. V. Cigoli, G. Gullotta, G. Santi, in Separazione, divorzio e affidamento dei figli, Giuffrè Editore, 2007).

Molti studi hanno, infatti, dimostrato come vi sia una consequenzialità tra l’avverarsi della disgregazione familiare – visto come elemento estremamente stres­sante – e l’insorgere di disturbi psico-fisici in molte persone che, in carenza della separazione, non presenterebbero tali disturbi, “…queste persone, infatti, devono risolvere, in un breve arco di tempo, numerose difficoltà inerenti tre aree di vitale impor­tanza:

  1. quella relativa agli aspetti pratici (lavoro, denaro, organiz­zazione domestica, ecc.);
  2. quella della sfera delle relazioni interpersonali-sociali (reti amicali, attività sociali e rapporti con l’esterno, relazioni eteroses­suali, ecc.);
  3. l’area delle interazioni familiari (contatti con l’ex-partner, i rapporti col figlio, ecc.).

L’insuccesso nei tentativi di soluzione di tali problemi è la componente centrale delle anomale reazioni emotive individuali: tanto gli uomini quanto le donne manifestano modelli disfunzio­nali e quadri patologici simili, nella fase che segue immediatamente la separazione (sintomi psichiatrici, ansia, depressione con tenta­tivi di suicidio, scarsa autostima e sensi di colpa, vengono in pari misura osservati nei lavori di C. Briscoe, J.B. Smith, E. Robins, G. Marlens e F. Gaskin, 1973; M. Guttentag e S. Salasin, 1979; E.M. Hetherington, 1972; L.I. Pearlin e J. Johnson, 1975), tuttavia gli squilibri appaiono inizialmente più accentuati e gravi nei mariti (E.M. Hetherington e coll., 1976; B.L. Bloom e coll., 1978), ma di maggior durata e persistenza per le mogli (E.M. Hetherington e coll., 1977; R. Brandwein, C. Brown e E. Fox, 1974; R.L. Stein, 1970) ( cfr. V. Cigoli, G. Gullotta, G. Santi, in Separazione, divorzio e affidamento dei figli, Giuffrè Editore, 2007).

Quanto sopra riportato, nello scopo del presente scritto, ha rilevanza in quanto focalizzerebbe il problema del perché, a seguito della separazione, abbiamo genitori che influenzano negativamente, magari perché vittime di una patologia psicologica, il normale sviluppo psico-fisico dei figli. Sul punto, gli studi di Zill (1978) danno una chiara conferma, dimostrando come le madri – ad esempio – sepa­rate e psicologicamente stressate assumano comportamenti più ri­fiutanti, più punitivi e aggressivi e siano meno attente o premurose nei confronti dei loro fanciulli rispetto a quelle madri componenti i gruppi di controllo fino a giungere ad una simile conclusione, si può affermare che il grado di benessere emo­tivo e la salute mentale del genitore con la custodia, costituiscono dei fattori di massima importanza per il sano sviluppo del figlio: se pre­cari o carenti, essi pregiudicano le interazioni e i rapporti nella fami­glia monogenitoriale, causando ulteriore stress, il quale, a sua volta, concorre ad aggravare la già delicata situazione ( cfr. V. Cigoli, G. Gullotta, G. Santi, in Separazione, divorzio e affidamento dei figli, Giuffrè Editore, 2007).

Breve cenno va fatto anche sui più classici degli avvenimenti psicopatologici legati alla fase post-separatizia e sugli avvenimenti che detta fase di rottura della coppia comporta: la fase più individuata appare essere la fase depressiva.

Tale fase appare caratterizzata da sensi di sfiducia dei singoli genitori accompagnati a sentimenti di solitudine e sensi di colpa per il loro fallimento di coppia, o accompagnati anche a sentimenti di rabbia con gli ovvi danni per i figli che divengono causa dei conflitti degli adulti e loro strumenti.

Appare così necessario individuare un soggetto esperto che, a partire dai sintomi sopra indicati, possa aiutare il singolo che versa in sicure grandi difficoltà, posto che appare molto difficile che il singolo sia in quel momento in grado di concentrarsi sul significato dei suoi comportamenti.

Sul punto è stato osservato come: “Lo stadio depressivo o di transizione segue la separazione fi­sica; pertanto l’obiettivo prioritario dell’operatore dovrebbe essere quello di aiutare le parti affinché pervengano ad un «divorzio emo­tivo» (a livello coniugale, ma non genitoriale): per diverso tempo i partners si considereranno ancora « in rapporto agli altri» anziché « a sé» (R. Weiss, 1975), a lungo valuteranno la loro capacità, la loro validità o il loro successo in rapporto alla relazione con un altro individuo (sovente di sesso opposto) più che percepirsi posi­tivamente di per se stessi, per ciò che realmente valgono.

Nell’istante in cui le parti accoglieranno l’idea di essere sole durante tutto il periodo di transizione e che sempre da sole do­vranno trovare la forza di uscirne, prenderà avvio l’ultima fase, de­nominata fase ristabilizzatrice” ( cfr. V. Cigoli, G. Gullotta, G. Santi, in Separazione, divorzio e affidamento dei figli, Giuffrè Editore, 2007).

Per giungere alla fase riequilibratrice della coppia post-separatizia o comunque in fase di separazione, il cui riflesso sarà di beneficio per i figli, appare necessario individuare strumenti perché la coppia in crisi all’inizio della separazione, o in corso di separazione, dismetta il conflitto per giungere ad una concordata separazione.

La legislazione attuale offre vari strumenti: il più noto è la mediazione familiare che ha il crisma di uno strumento teso a dirimere in modo costruttivo il conflitto esistente nel menage familiare, in quanto strumento teso a guidare i singoli soggetti affinché essi stessi, sempre con l’intervento di una terza persona, neutrale e qualificata, riescano a far emergere tutti gli interessi coinvolti, provvedano, in piena autonomia negoziale, alla regolamentazione dei loro futuri rapporti e soprattutto in vista del benessere dei minori, se esistenti, o comunque anche in vista di una separazione o di un divorzio.

Ma la mediazione ha il crisma della volontarietà dei singoli, ovvero è essenziale che entrambi i soggetti in crisi vogliano farvi ricorso ovvero che tra loro vi sia l’accordo.

La mediazione familiare, quale strumento unico e contrattuale tra i singoli soggetti formanti la coppia e teso ad individuare l’accordo che stemperi o allevi o elimini la conflittualità, essenzialmente in funzione dei compiti genitoriali nei confronti dei minori, necessita, come detto, dell’accordo dei singoli a perseguire tale strada.

Il quesito da porsi è: qualora tale accordo manchi a quale strumento si può far ricorso per giungere ad una separazione concordata e riequilibrata tra le coppia in crisi ed in sede di separazione?

Ci viene in aiuto la CTU di matrice sistemica.

In queste situazioni una CTU psicologica sistemica ha un’importanza essenziale poiché assume il molteplice compito di essere:

– catalizzatore per l’attenuazione del conflitto, fino eventualmente ad esaurirlo,

– analizzatore delle ragioni essenziali e metaforiche del conflitto,

– istituzione di un ambito contrattuale per i contendenti.

Infatti, la figura del CTU psicologo sistemico rappresenta il terzo cui i membri della coppia, oltre alle relative famiglie allargate, rivolgono l’attenzione conflittuale nell’intento di assumerne la complicità ed averne conferma per le ragioni che ciascuno adduce. Ciò, tuttavia, consente di esercitare in un ambito istituzionale il litigio, esaurendone il maggior livello energetico e ponendo le basi per una irregimentazione contrattuale con la definizione dei criteri cui entrambi abbiano assunto l’impegno di adeguarsi.

All’interno di questo processo è possibile soprattutto individuare la ragione metaforica del litigio. È la conoscenza di questo secondo elemento-causa che può consentire di portare ad esaurimento il conflitto.

A fronte di ciò, il CTU psicologo sistemico è in grado di condurre il soggetto conflittuale, attraverso una contrattazione esercitata essenzialmente dalle parti, ad individuare soluzioni sufficientemente efficaci per entrambi, con una sedazione graduale del conflitto, verso una separazione ragionata in termini esclusivamente funzionali e collaborativi.

E, pertanto, oltre a fruirne i contendenti, i maggiori beneficiari sono indubbiamente i figli poiché, essendo estranei alle ragioni del conflitto, non possono esserne che soggetti totalmente passivi e soccombenti finché il litigio genitoriale permane anche dopo la separazione.

La CTU psicologica sistemica poi appare necessaria anche per la verifica delle condizioni evolutive dei figli, così anche per fugare dubbi circa possibili stati psicopatologici dei genitori e delle famiglie allargate degli stessi, eventualmente limitativi del benessere e dello sviluppo dei minori, risolvendo così anche i quesiti sollevati all’inizio.

In tal modo si risolverebbe anche l’utilizzo strumentale dei figli da parte di un genitore in ipotesi di Sindrome da Alienazione Parentale (SAP) (si veda Gardner, La sindrome da Alienazione Parentale, – SAP, 1998), laddove in una situazione di disgregazione familiare, la “supermamma” rivendica un ruolo totalizzante nella gestione della prole.

Grazie anche alla CTU sistemica si potrebbe evitare l’insorgere di problematiche di tipo psicologico nelle ipotesi in cui un genitore viene “escluso”, dall’altro genitore, dalla vita del proprio figlio e ciò a causa di una sorta di “programmazione” subita dal minore ad opera dell’altro genitore che, strumentalizzando il conflitto con il partner, rivendica a sè la gestione monogenitoriale del minore.

Gli effetti devastanti del disturbo della c.d. Sindrome da Alienazione Parentale, infatti, sotto l’aspetto psicologico sono normalmente ravvisabili in forti situazioni di “sofferenza” e di inevitabili strutturazioni di sensi di colpa nel minore, con conseguente paura del genitore “fidato”, che possono portare anche disturbi dell’indentità e della sfera sessuale con strategie autocolpevolizzanti ed autodistruttive.

Per cui l’uso siste­mico-relazionale della C.T.U. si impone come mezzo giuridico cruciale per la comprensione e l’intervento sul caso stesso oggetto della separazione e ciò attraverso il superamento della visione mera­mente individualistica dell’esperienza separatizia e dei suoi riflessi sul benes­sere delle persone coinvolte, partendo dagli adulti per giungere ai figli.

Viene così alla luce la necessità di dare risalto a ciò che va riequilibrato e per fare ciò occorre partire dalla storia familiare, di come nasce la coppia, di come diviene poi coppia genitoriale dando vita al patto familiare con l’arrivo dei fi­gli, di come poi i figli in sede separatizia divengono strumenti del conflitto genitoriale la cui soluzione può arrivare solo attraverso un lavoro comune di tutti i professionisti che si occupano, per le loro competenze, della disgregazione familiare.

VERSO UNA RIDISCIPLINA AUTONOMA DEL PATTO FAMILIARE-EDUCATIVO IN SITUAZIONE SEPERATIZIA: L’AUTONOMIA PRIVATA DEI CONTRAENTI DEL PATTO FAMILIARE-EDUCATIVO.

Come è noto, da un sistema che attribuiva allo Stato – inteso come organo giurisdizionale – il monopolio della regolamentazione della crisi familiare e quindi il potere di ridisciplinare il patto educativo nella crisi familiare, di recente il legislatore, con una volontà di “degiurisdizionalizzazione” del contenzioso, ha dato un primo segnale di voler riattribuire, ai soggetti costituenti detto patto – i genitori e non solo -,  la possibilità quasi di ridisciplinare il nuovo patto educativo che si viene a formare a seguito della separazione della coppia genitoriale ( si pensi ad esempio alla L. 10 novembre 2014, n. 162, che consente di pervenire alla separazione, al divorzio, e alle relative modifiche mediante negoziazione assistita dai legali, o addirittura direttamente con un accordo avanti al Sindaco così come anche la L. 6 maggio 2015, n. 55, sul c.d. “divorzio breve” che ha abbreviato il lasso temporale intercorrente tra separazione e divorzio dando un ennesimo impulso alla possibilità di ampie intese tra le parti).

Appare evidente come da tali norme traspare una volontà di gettate future basi per un ripensamento della nozione di disponibilità e indisponibilità dei diritti – in specie affidamento e disciplina del conflitto della coppia – e delle rispettive aree di applicazione, con anche l’affiancamento di strumenti, quali la mediazione familiare e la c.d. pratica collaborativa, che pur non codificati vanno gradatamente diffondendosi nella prassi, valorizzando il mantenimento del dialogo in ogni relazione, anche conflittuale.

Una serie di strumenti che vanno in una direzione tesa ad evitare provvedimenti eteroimposti – statali – per dare più spazio alla volontà dei genitori nella gestione della loro crisi familiare o meglio separazione della loro coppia genitoriale.

È stato affermato che “per mezzo di tali strumenti è possibile sfruttare le potenzialità racchiuse nel conflitto e le conoscenze e gli interessi dei suoi protagonisti. Si riporta il baricentro sul dato oggettivo della lite e si inizia a pensare che il superamento della stessa non deve avvenire per forza con una decisione autoritativa che ripristini astratte volontà di legge.

Laddove i privati siano titolari delle situazioni sostanziali in contesa e non vi siano interessi metaindividuali o pubblici da tutelare, come gli stessi possono dare vita a rapporti, modificarli, o farli venire meno, allo stesso modo devono poter ricucire gli eventuali strappi, risolvere le crisi di cooperazione e impostare liberamente i loro futuri assetti ed equilibri. Sino a ieri gli accordi raggiunti in sede di mediazione familiare o di pratica collaborativa necessitavano di essere recepiti in ricorsi per separazione consensuale o per divorzio congiunto; oggi, gli stessi ben possono essere direttamente produttivi di effetti ove formalizzati mediante negoziazione assistita” (Cfr. Danovi, Il processo di separazione e divorzio, Milano, 2015, 283 ss.).

Ma posto che lo strumento ha oggi solo una disciplina generale a livello civile con la mediazione civile e commerciale, come disciplinato dal D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, e non in materia di famiglia, appare necessario subito un intervento legislativo che almeno con questi strumenti possa ridare legittimità giuridica a chi veramente dovrebbe essere l’unico soggetto titolare del diritto-potere di ridisciplinare il patto educativo sorto con la nascita dei propri figli e che, successivamente, necessiti di una nuova disciplina per la separazione della coppia genitoriale.

Da qui, quindi, una osservazione appare necessaria in merito a quale possa essere il miglior diritto di famiglia onde meglio garantire il miglior patto educativo dopo la separazione della coppia genitoriale.

La risposta potrebbe sembrare ovvia: riattribuire un potere pieno all’autonomia dei genitori che per di più rispecchia il valore preminente attribuito dalla Costituzione alla tutela della persona sia come individuo sia come membro di formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità.

Ma da più parti vi sono ancora critiche sul punto, c’è chi riafferma un ruolo fondamentale che deve continuare a essere svolto dalla giurisprudenza con attribuzioni di valenza al ruolo dei precedenti – le sentenze della Cassazione o della Corte Costituzionale – quale strumento di adeguamento del diritto alla realtà sociale e culturale e, quindi, ancora provvedimenti etero-imposti che andrebbero a toccare la nuova vita familiare nei loro componenti dopo la separazione.

Ed infatti è noto che il Governo ha presentato al Parlamento un disegno di legge delega (Si tratta del disegno di legge delega n. C 2953, presentato dal Governo alla Camera l’11 marzo 2015 ) che dovrebbe avere l’obbiettivo di attribuire determinate controversie ad organi giurisdizionali specializzati e che dovrebbe prevedere  l’istituzione, presso i tribunali ordinari, di apposite sezioni specializzate, denominate “per la famiglia e la persona” (Le sezioni dovrebbero assumere, come detto in più luoghi dal disegno di legge, la denominazione di “tribunale della famiglia e della persona” a cui affidare una vasta tipologia di controversie e non soltanto i giudizi di separazione e divorzio ).

Di interesse tecnico è anche che il progetto fa espresso riferimento a quanto dispone l’art. 38 disp. att. c.c. allo scopo di dare positiva soluzione ai dubbi esistenti sulla ripartizione delle competenze fra tribunale ordinario e tribunale per i minorenni delle controversie de potestate di cui agli artt. 330 ss. c.c.: infatti il disegno di legge prevede espressamente che al tribunale per i minorenni appartiene la competenza sui provvedimenti limitativi e ablativi della potestà e che la vis attractiva, determinata dalla pendenza di un giudizio di separazione o di divorzio, dovrà operare a favore del tribunale della famiglia, solo per i provvedimenti limitativi di cui all’art. 333 c.c.: un’indicazione questa in contrasto con quanto deciso dalla Cassazione per cui la competenza per attrazione del tribunale ordinario opera anche nei confronti delle domande ablative della potestà di cui all’art. 330 c.c. (cfr. Cass. 26 gennaio 2015, n. 1349).

Comunque nel voler tralasciare la valenza legislativa di tale progetto di legge rimane ancora aperto il primo quesito: quale è il miglior diritto per la famiglia in crisi?

Sul punto ci viene in aiuto il tema dei patti prematrimoniali che diviene sempre più un terreno di sperimentazione giurisprudenziale e dottrinale, in assenza, allo stato, di riferimenti normativi specifici

Ovvero si sta discutendo in modo sperimentale sulla possibilità di redazione da parte dei gestori unici del loro patto educativo di intese di carattere preventivo della crisi coniugale, intendendosi come tali sia gli accordi stipulati prima della celebrazione delle nozze, oppure anche durante il matrimonio, con i quali le parti si preoccupano di (pre)stabilire le condizioni dell’eventuale crisi coniugale (c.d. “accordi in vista della separazione, del divorzio, dell’annullamento”), sia gli accordi stipulati in occasione della separazione personale consensuale, oppure tra la separazione e il divorzio (e, dunque, in un momento in cui è già esplosa la crisi coniugale), con i quali i coniugi intendono (pre)stabilire le condizioni del futuro (ma ormai probabile e prossimo) divorzio (c.d. “accordi tra separazione e divorzio”).

La sentenza della Cassazione del 21 dicembre 2012, n. 23713 da una valutazione sostanzialmente positiva di tali accordi; afferma infatti che essi sono molto frequenti in vari Stati, soprattutto quelli di cultura anglosassone, dove svolgono “una proficua funzione di deflazione delle controversie familiari e divorzili”.

Per cui abbiamo già qualche spiraglio giurisprudenziale che afferma come debbano essere considerati adeguatamente “non solo i principi di diritto di famiglia, ma la stessa elaborazione del sistema normativo, ormai orientato a riconoscere sempre più ampi spazi di autonomia ai coniugi nel determinare i propri rapporti economici”.

Abbiamo un inizio verso la trasformazione della nullità assoluta (per contrasto con l’ordine pubblico) del contratto pre-matrimoniale in una relativa, azionabile soltanto dall’avente diritto; e questo ci fa ben sperare che presto tale affermazione divenga anche legge.

Uno schema simile, come fino ad ora affermato – psicologico e giuridico – porta ad affermare come il principio dell’accordo nel menage familiare ed il nuovo accordo conseguente all’eventuale dissesto della famiglia da parte dei contraenti-genitori, deve essere tolto dal potere del giudice affinché non possa disciplinare con una decisione etero-imposta in merito a decisioni educative in quanto oggi non più coincidenti con l’interesse del minore.

Per quanto difficile, solo all’accordo dei genitori – prima e dopo la separazione della coppia genitoriale – dovrebbe essere attribuita valenza giuridica, in quanto i genitori restano sempre i primi depositari delle scelte relative alla realizzazione della personalità del minore; l’esistenza di una intesa tra i genitori in ogni momento della vita del menage familiare – fisiologico o patologico – è l’unica che può incontrare sempre i favori del figlio.

Solo in tal modo si avrebbe che l’interesse del minore diviene realmente un “valore dichiarato” il cui contenuto non è prestabilito ma si precisa in sede di patto genitoriale la cui concretizzazione non è dato conoscere prima dell’applicazione.

Quel che si coglie è che oggi vi è una lacuna legislativa esistente laddove è in discussione la gestione privata del menage familiare, al punto che viene affermato come: “Il giudice ha in realtà un potere sostitutivo illimitato rispetto ai genitori, che debbono nei fatti adeguarsi alle condizioni imposte dal Tribunale per i Minorenni. La potestà ne risulta svilita, in contraddizione con la riaffermata scelta legislativa di “affidare” la cura del minore ai genitori; i testi legislativi costruiscono una “rappresentazione scenica” dominata dalla previsione di un regista (il giudice) che può in ogni momento decidere di por fine ad libitum alla rappresentazione. Si nasconde così, la reale impotenza del diritto a regolamentare questo settore.” (P. ZATTI,Relazioni familiari-matrimonio-famiglia di fatto, in Famiglia e Matrimonio, I, Milano, 2002, 48).

Va da sè, quindi, che in ipotesi di patologia del menage la vecchia strada pubblicistica è fallace mentre quella privatistica di autonomia privata risulta essere il miglior mezzo di ridisciplina del patto educativo posto che quella pubblicistica non può che essere repressiva verso uno od entrambi i contraenti in quanto ha il crisma di costrizione e, pertanto, raramente è dirimente e quindi è inadeguata.

È, infatti, opinione di chi scrive che il patto educativo debba contenere solo una implicita volontà delle parti alla sua compiutezza e perché sia tale è necessario che questa avvenga al termine del cammino autonomo dei contraenti, non potendo e non dovendo contenere nessuna previsione sanzionatoria pubblica.

In ipotesi di patologia del menage familiare, quindi: “La previsione della necessità di tener conto degli accordi tra i genitori relativi all’affidamento e al mantenimento dei figli trova il suo fondamento nel fatto che i genitori, se concordi su questo punto, possono essere i migliori interpreti degli interessi dei figli, oltre che le persone maggiormente a conoscenza delle loro esigenze e preferenze.” (L. RUBINO,Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, art. 6, in Comm. al Diritto Italiano della Famiglia, a cura di CIAN- OPPO- TRABUCCHI, VI, 1, Padova, 1993, 420 ss.).

E se in precedenza abbiamo parlato dell’utilità che potrebbe avere la formalizzazione della c.d. mediazione familiare, ora si può dire che,  per il suo essere istituto essenzialmente extragiudiziario, la mediazione familiare, infatti, da un lato, concorrerebbe ad attenuare, se non ad eliminare, i rancori e i risentimenti coniugali che un processo con ogni probabilità potrebbe fare emergere in tutta la loro gravità, dall’altro e conseguentemente, potrebbe contribuire al raggiungimento proprio dell’accordo in ipotesi di un venir meno del consenso da parte dei genitori all’interno del menage.

Se, però, il genitore, quale esecutore del contratto genitoriale, viene limitato dalla costituzione di una condizione personale estranea alla sua scelta autonoma, l’esecuzione del contratto sarà inefficace e l’elemento che ha causato l’eventuale l’inefficacia del contratto non potrà che essere il conflitto tra la preesistente autonomia dei contraenti inadempienti ed il provvedimento giuridico sanzionatorio o meglio, l’espansione della giurisdizione statuale sul problema educativo.

In tal caso, per riprendere quanto già detto in merito alla sentenza della Cassazione del 21 dicembre 2012, n. 23713, vi potrà essere una azione dall’avente diritto che richiederà l’intervento di imperio dell’autorità giudiziaria – magari quella specializzata come previsto dal citato progetto di legge  – il disegno di legge delega n. C 2953, presentato dal Governo alla Camera l’11 marzo 2015 – che dovrà intervenire per attuare una sanzione afflittiva affinché il violatore del patto educativo sia rieducato verso un ripristino di una situazione di fisiologia sociale.

Ovvero, in ipotesi di violazione o non attuazione del patto educativo, o se in caso di comportamento dei contraenti violatore delle norme contrattuali disciplinanti il patto educativo nei confronti dei figli, concretizza una violazione che, per quanto sopra esposto, necessiterà di una “sanzione” giurisdizionale rieducativa al fine di ripristinare una qualche forma di fisiologia del detto menage, con beneficio primario per i minori, oltre che di riflesso per i singoli contraenti.