SIMBIOSI ED AUTOALIENAZIONE GENITORIALE. RISVOLTI GIURIDICI

SIMBIOSI ED AUTOALIENAZIONE GENITORIALE. RISVOLTI GIURIDICI

Di: Avv. Erasmo Avella

a. LA SIMBIOSI GENITORIALE POST-SEPARATIZIA

Tale situazione si ha quando tra il genitore ed il minore si instaura un rapporto molto stretto, di tipo c.d. “simbiotico” in cui non c’è spazio per l’altro genitore – il non domiciliatario, quindi di solito il padre – il quale, ad esempio, preso prima dalla sofferenza per la perdita del rapporto esclusivo con la moglie o compagna e poi lontano fisicamente, non è, in tale ipotesi, in grado di fornire la giusta triangolazione madre-padre-figlio utile all’evoluzione del rapporto simbiotico che si instaura tra neonato e madre, meno sano e necessario a partire dall’anno di vita del bambino.

Questo rapporto simbiotico: corrisponde alla confluenza, cioè quando due persone fondono tra di loro sentimenti, atteggiamenti e credenze, senza capire quali sono i rispettivi confini e dove differiscono. Sono una cosa sola, una sola persona. La relazione simbiotica limita e mantiene in una condizione di immaturità e di insicurezza cronica generando insofferenza.

Il minore così appare fortemente legato agli stati d’animo del genitore a cui è legato simbioticamente senza saper differenziarne i propri: e lo si vede in specie in una sua qualità regressiva della relazione genitore simbiotico-figlio (nelle perizie spesso si vedono disegni in cui il minore rappresenta due fiori (uno lui – lo indica col suo nome – che equivale a lui stesso, ed un altro che viene indicato col nome del genitore a cui è legato simbioticamente) intrecciati tra loro, quasi indifferenziati.

Un altro elemento di osservazione che fa rilevare tale situazione è a volte il disegno congiunto tra la madre ed il minore in cui si disegnano mentre stanno facendo un gioco a terra con degli animaletti, un gioco di solito tipico dei bambini ben più piccoli del minore che sta disegnando: da esso si riscontra una regressione del minore.

Anche nell’interazione col genitore a cui è legato simbioticamente emerge che il minore cerca di difendere tale genitoree rimprovera l’altro genitore per i suoi comportamenti tenuti.

Emerge spesso che in tali casi anche la famiglia allargata del genitore simbiotico è solita nutrire un forte risentimento nei confronti dell’altro genitore e spesso anche desiderosa a che lui rimanga ai margini della vita del figlio; va altresì precisato che tale figlio spesso convive di più con la famiglia allargata che con lo stesso genitore simbiotico in quanto ad essa delegante la gestione del figlio.

Ne consegue come la figura dell’altro genitore viene ad essere considerata marginale ed esclusa dal concetto di famiglia da parte del figlio stesso in quanto ciò è in linea con il pensiero prevalente della famiglia tutta di appartenenza del minore.

In tali casi il minore, si è riscontrato a volte nelle varie osservazioni, esprime il bisognoche il genitore – che per maggior comprensione lo si indica come “alienato” – si ponga come figura che triangoli la relazione duale esistente tra il minore stesso ed il genitore simbiotico; ad esempio si osserva dai protocolli delle favole della Dϋss che il minore ha bisogno di essere svezzato, desidera svezzarsi esprimendo così il suo desiderio di sperimentare e di differenziarsi dal genitore simbiotico.

Per cui in tal caso un minore che all’interno del gruppo di appartenenza è sottoposto ad un regime di controllo in ogni ambito della propria vita e dei propri interessi viene a subire un gravissimo pregiudizio alla sua crescita in termini di autonomia di soggetto adulto in quanto, per poter controllare gli atteggiamenti ed i sentimenti del bambino nei confronti dell’altro genitore, occorre esercitare su di lui un controllo totale, in ogni ambito della sua vita e della sua espressività.

Ne consegue che in tali casi il minore non può continuare a vivere in quelle condizioni e poiché è del tutto escluso che i soggetti adulti possano cambiare radicalmente atteggiamento, l’alternativa inevitabile è che deve essere allontanato da quel contesto famigliare, da frequentare solo parzialmente e con visite controllate nei suoi effetti.

Ad esempio: il minore allontanato dal gruppo famigliare di appartenenza – genitore simbiotico e di lui famiglia allargata – deve essere collocato presso una famiglia affidataria, od ancora meglio in una istituzione scolastica residenziale da cui raggiungere i due genitori alternativamente nei fine settimana, almeno durante l’anno scolastico – un periodo che, della durata prevedibile di due anni – potrebbe essere sufficiente a disintossicare il minore dalle induzioni descritte.

Una soluzione del genere sarebbe indubbiamente di iniziale grande sofferenza del minore, sofferenza che, tuttavia, sarebbe un male decisamente inferiore a quanto gli risulterebbe con la permanenza nella condizione in cui possa continuare a vivere.

In conclusione, il punto essenziale è che spesso in situazioni di simbiosi così come descritte il minore non incontra il genitore contro cui viene attuata la simbiosi e, pur prescindendo da ipotesi di condizionamento e di divieti imposti al minore, resta evidente che senza provvedimenti adeguati questo minore non vedrà mai più il genitore “non simbiotico” e non convivente; e ciò considerato che “l’unico soggetto in possesso della psiche e della volontà del minore” – in tali situazioni – è il gruppo del genitore simbiotico con la sua famiglia allargata.

Il rapporto del minore con il genitore simbiotico è di totale subordinazione, senza possibilità di evoluzione verso una crescita dell’autonomia personale. L’elemento critico non è solo il genitore che attua tale simbiosi, che in se stessa potrebbe essere anche debole, ma spesso essa si inserisce in un insieme trittico formato dalla famiglia allargata-genitore-simbiotico in un tutt’uno. Perdurando la situazione il destino del minore potrà essere verso disturbi depressivi dell’umore o, al contrario, verso l’assunzione di comportamenti oppositivi e successivamente antisociali.

Per questi motivi è indispensabile che il minore venga sollevato dal peso che gli viene imposto dal genitore-simbiotico e la sua famiglia allargata, presso i quali la convivenza è chiaramente pregiudizievole, collocandolo ad esempio temporaneamente presso una struttura residenziale a fini scolastici.

b. AUTOALIENAZIONE GENITORIALE POST-SEPARATIZIA.

In tali ipotesi abbiamo invece un genitore che ha come struttura personologica quella di essere rigido nel modo di essere e di funzionare sul piano psichico, incapace di sopportare la frustrazione e di pervenire a compromesso in quanto immaturo nella sfera affettiva ed orientato all’egoico interesse nella relazione con la prole, spesso legato alla casa e sul piano spontaneo poco propenso a favorire la frequentazione del genitore non convivente col figlio.

Alla luce di tali caratteristiche è facile immaginare quali continueranno ad essere, nell’immediato futuro, le conseguenze dell’impatto tra l’indiscutibile rigidità di tale genitore e, ad esempio, la rigidità adolescenziale del minore, questa sì fisiologica ma meritevole di gestione affettiva, comprensiva e contenitiva, finalizzata a favorire il processo di crescita dell’adolescente, che arriva ad essere poi portato a confidarsi maggiormente con l’altro genitore – spesso quello non convivente – dal quale il minore si sente capito e compreso.

In tal modo si ha che l’altro genitore diviene figura insostituibile e pilastro nella vita del figlio ed in ipotesi di un legame molto forte dell’altro genitore con il figlio magari al quale egli si è sempre dedicato con costanza ed adeguatezza, e per tale motivo, con pari affetto viene in tal modo ricambiato dal minore, con un’ovvia difficoltà di relazione col genitore che possiamo definire “anaffettivo” od anche “autoalienante”, le cui caratteristiche di solito sono quelle di essere oltre che rigido ed oppositivo, scarsamente empatico nella percezione dei reali bisogni del figlio.

Si evidenzia in tal modo un disagio del figlio che sempre più si sente legato per vocazione ed affinità all’ambiente di vita non del genitore domiciliatario a volte – in quanto anaffettivo – ma verso l’altro genitore, ove il minore si sente invece accettato, compreso, amato.

La conseguenza è che il minore motivatamente si allontana da tale contesto che sente anaffettivo in quanto bisognoso sul piano spontaneo e vocazionale, più vicino al genitore con il quale da sempre lo stesso è in maggior sintonia e dal quale si sente accettato ed amato senza condizioni, in quanto figura genitoriale in grado di offrire alla prole, sul versante della dedizione affettiva, quelle indiscutibili garanzie che il genitore, invece, anaffettivo non ha saputo trasmettere.

Le conseguenze sono le seguenti: il minore lascia l’abitazione del genitore anaffettivo od autoalienante per andare a vivere con l’altro genitore e spesso inizia a rifiutare anche la presenza del primo genitore, rifiutandosi di vederlo.

In tali ipotesi è noto che il genitore che perde il figlio, in linea con l’atteggiamento sopra descritto, ancora una volta è impostato sulla sola dimensione del proprio bisogno, in particolar modo di rivalsa e gestione del conflitto con il genitore presso cui si è rifugiato il minore; e negli atti giudiziari si leggono elencazioni di doglianze relative ad asseriti comportamenti che il genitore invece affettivo attuerebbe nei confronti del primo, estrusivi dalla vita del figlio e costituenti una forma di “plagio” del ragazzo, talché questi rifiuterebbe di incontrarlo “per soggezione alle manovre del genitore con cui si sarebbe alleato”. Per cui negli atti processuali si legge: a) come vi sia un genitore penalizzato dai comportamenti dell’altro, definiti criminali a volte, e b) il genitore invece empatico che si è “appropriato” del figlio e se lo tiene “ben stretto”.

In tali casi si ricorre all’ipotesi del condizionamento per accreditare l’asserzione che gli si stia facendo un grave torto, in quanto in realtà il figlio magari vorrebbe andare da lui ma si rifiuterebbe per soggezione dell’altro genitore con cui si è alleato.

Va fatta una prima precisazione: non si deve confondere il “condizionamento” con la “suggestione”, laddove il concetto di condizionamento esprime una situazione in cui il soggetto plagiato, pur consapevole della sua volontà e dei suoi desideri, non osa trasgredire gli ordini o le richieste della persona cui è soggetto.

Invece quanto sopra indicato come comportamento di allontanamento del figlio da un genitore per andare dall’altro alla luce delle caratteristiche elencate del genitore rifiutato denota che il minore invece ha una forte capacità di esercizio della propria volontà e spesso le audizioni dei minori in tali ipotesi avanti ai magistrati evidenziano una loro forte determinazione all’idea di andare a vivere con l’altro genitore – quello affettivo e/o empatico – spesso evidenziando come questo stato d’animo sia autentico e non indotto da alcuno.

Un aspetto sostanziale, che in effetti viene trascurato spesso, è che tali situazioni avvengono in momenti dello sviluppo dei bambini particolarmente critici, quale è quello della preadolescenza. È comunque noto che dopo i dieci anni all’incirca inizia nell’individuo in crescita un periodo in cui ritornano, sia pure modificati, molti aspetti caratteriali infantili, tra cui la capricciosità, l’ostinazione, la ribellione, comportamenti particolarmente guidati dalle emozioni.

Per cui il compito dei genitori non è quello di contrastare, accampando propri diritti sui figli, bensì di comprendere e guidare per far sì che le necessità educative di questo periodo abbiano ad essere incanalate nei criteri della vita sociale. Ovviamente, il bambino in questa fase può anche essere costretto con la forza al volere degli adulti così come richiede il genitore autoalienante, però al costo di esiti traumatici e risultati disastrosi sul corretto sviluppo nel corso della maturazione successiva.

In questa fase dello sviluppo, in cui la caratteristica prevalente del bambino in crescita è l’oppositività, se consideriamo che suggestione non vuol dire soltanto costringere una persona a muoversi nel verso voluto ma anche in senso repulsivo, si potrebbe concludere nel senso che, in effetti, una vera forma di “autocondizionamento” o “autoalienazione” o “autosuggestione” la stia realizzando proprio il genitore anaffettivo magari presso il quale il figlio è anche domiciliato in modo prevalente.

Se poi pensiamo che la spinta naturale di ogni bambino è quella di amare il proprio genitore ma, in risposta a comportamenti adulti tenuti nei suoi confronti, egli è costretto ad allontanarsene, paradossalmente dovremmo ritenere che sia proprio il genitore anaffettivo con le sue caratteristiche personologiche a “condizionare” il figlio inducendo in lui scelte contrarie ai desideri più profondi.

Certamente per il bambino diviene una esperienza tremenda quella di essere costretto ad uscire di casa con il genitore a cui si sente legato, a volte prelevato dai carabinieri invocati dal genitore non voluto perché egli voleva restare a casa del genitore a cui è affettivamente unito; per cui anche tali situazioni portano alla necessità di giungere a scelte, o meglio decisioni, tendenti però a rasserenare l’animo del bambino e non ad altre coercizioni che possano accentuare il già forte malessere del minore.

c. RISVOLTI GIURIDICI.

Di conseguenza, da ciò si evince che non è affatto discutibile che un minore esposto a questi fenomeni si trovi in una situazione di grave pregiudizio sia rispetto al suo stato di salute psicofisica sia rispetto alle prospettive del prosieguo di una crescita armoniosa necessaria per una buona qualità della vita in ogni fase dell’esistenza.

Nell’affermare la realtà e la legittimità di un patto educativo genitoriale – che nasce in forza della autonomia delle stesse parti-genitori –, come espressione di una loro libera scelta contrattuale al momento della filiazione, ed avente contenuti di obblighi nascenti tra i genitori, non confinati nell’ambito dei doveri morali o sociali, ma con contenuti a carattere giuridico, ciò posto ci si deve porre la domanda se vi è violazione di tale patto nel caso di un genitore simbiotico o genitore che autoaliendandosi diviene incosciamente programmatore a danno del figlio e dell’altro genitore, e se si, quali possono essere le conseguenze che ne discendono in tema di coercibilità e responsabilità nella gestione della potestà genitoriale.

O meglio, in relazione ai principi di cui agli artt. 330 e 333 c.c, ossia in ipotesi di comportamenti altamente pregiudizievoli per il minore e della conseguente necessità di sanare od impedire la condotta genitoriale lesiva, dobbiamo anche domandarci se è auspicabile ricorrere ai rimedi rappresentati da queste norme, di affievolimento o di ablazione della potestà, o valutare se usare tali rimedi quale estrema ratio, e se sia invece possibile ravvisare l’utilità di altra tipologia di mezzo rieducativo del genitore simbiotico od auto alienante, violatore del patto educativo e genitoriale.

Ovvero appare lecito, alla luce della esperienza, chiedersi, nell’ipotesi di una violazione dei doveri ed obblighi nascenti dal contratto tra i genitori che automaticamente pregiudica il benessere del minore, se non sia piuttosto da ritenere necessità primaria una forma di rieducazione, forse più funzionale rispetto ad una sanzione che scaturisca dal potere pubblico, restando nell’ambito della autonomia privata dei singoli: in questo caso, ad esempio, il mezzo di maturità genitoriale non dovrebbe essere cercato in una procedura pubblica – giudiziaria, ma in uno strumento privato e personalizzato quale la mediazione familiare.

In un contesto simile le norme di cui agli artt. 330 e 333 c.c, qualora vi siano comportamenti fortemente pregiudizievoli per il minore, devono restare dunque estrema ratio, quando non sia possibile ricorrere ad alcun altro strumento che riconduca il genitore violatore del patto alla riappropriazione dei propri obblighi assunti verso i minori suoi figli.

Quindi dobbiamo chiederci se “vivere simbioticamente” il proprio figlio od auto alienarsi nei modi che abbiamo visto, non porti sicuramente ad una violazione dei doveri e degli obblighi nascenti dal contratto tra i genitori ed il minore. In questo caso, una tale violazione comporta anche la necessità primaria, a mio parere, di trovare una soluzione funzionale al diritto al benessere del minore, che credo andrebbe da ricercarsi in una forma di “rieducazione” del genitore – in entrambe le figure sopra schematizzate anche se l’una è l’opposto dell’altra – più funzionale rispetto ad una vera e propria sanzione. Ciò significa evitare l’intervento del potere pubblico, ossia di applicare la sanzione, per indirizzarsi verso un mezzo di educazione che non dovrà quindi essere ricondotto in una procedura pubblica – giudiziaria ma in uno strumento privato quale la mediazione familiare affinché si produca e si abbia una “salvazione” del minore togliendolo dalla situazione di “grave pregiudizio”.

In altre parole, sul presupposto dell’esistenza e della legittimità di un patto educativo nato dall’autonomia delle scelte delle parti, ossia dei genitori al momento della decisione di filiazione, come espressione di una libera scelta contrattuale della coppia che si appresta a divenire anche coppia di genitori, e tenuto conto della delicatezza e della complessità del compito–dovere genitoriale, solo un vero e proprio strumento di autoregolamentazione, piuttosto che un qualunque intervento legislativo e/o giurisdizionale organico, può condurre ad un esercizio corretto degli obblighi in capo al genitore, di talché il “simbiotico o l’autoprogrammatore”, grave violatore del patto educativo, possa riappropriarsi dei propri obblighi prima di innescare il procedimento volto a giungere a rendergli non più possibile l’esercizio della sua potestà di genitore, appunto, come estrema ratio.

La legge, come sappiamo, in base alle carenze manifestate, offre mezzi differenziati con i quali reagire alle inadempienze dei genitori, particolarmente per mantenere i minori in uno stato di protezione laddove non si mostri sufficiente l’ambito naturale predefinito nella famiglia.

I provvedimenti limitativi od ablativi della potestà dei genitori, sebbene possano essere visti comunemente come norme sanzionatorie, in realtà hanno lo scopo preminente della salvaguardia degli interessi del minore e devono essere visti appunto come lo strumento concreto estremo per il mantenimento del benessere psico-fisico del minore, ratio dell’intera recentissima riforma del diritto di famiglia.

Come è ovvio, stiamo parlando del contenuto dell’art. 330 c.c. che comporta la pronuncia di decadenza dalla potestà a seguito dell’inosservanza dei doveri o dell’abuso dei relativi poteri dei genitori, dalla quale derivi un grave pregiudizio per il figlio.

Ed appare evidente a tutti i commentatori che una situazione di comportamento programmatore da parte di un genitore porta a carico di quest’ultimo una violazione dei “doveri inerenti alla potestà”, in quanto l’art.147 c.c. comprende anche l’obbligo di tutelare la vita, l’incolumità fisica morale e quindi psichica dei figli.

La norma in esame opera, quindi, anche quando vengono violati i doveri relativi al rispetto ed all’integrità fisica e morale dell’individuo che gravano su tutti i consociati ed a maggior ragione sui genitori, da intendersi come intervento di sostituzione di soggetti incapaci con altri in grado di assolvere, surrogando, la funzione genitoriale.

Né deve essere, peraltro, trascurato ma, anzi, ribadito che quegli stessi maltrattamenti a danno dell’altro genitore, nell’evidenza che la “simbiosi” – che impedisce al genitore “alienato” di poter gioire della presenza del figlio e di esercitare il suo ruolo di genitore, in quanto tali sono ancora una volta violazione del patto educativo per essere comunque turbativi dell’atmosfera esistenziale nel suo complesso e dell’equilibrio psicoaffettivo dei figli in violazione dell’art. 8 della Convenzione di Roma del 4 Novembre 1950 che garantisce effettività al rispetto della vita familiare.

In tali circostanze e come soluzione estrema giunge necessaria la pronuncia di decadenza, vengono meno i poteri dei genitori sul figlio, anche se però quest’ultimi continuano ad essere gravati di tutti i compiti compatibili con il provvedimento disposto dal giudice come i doveri di natura economica e di natura morale, quali il dovere di istruzione e di educazione.

Appare comunque evidente che soluzioni così drastiche come oggi proposte dal nostro ordinamento giuridico forse non sono così funzionali e di fatto risolutive nei casi di inefficienza genitoriale, soprattutto nei casi di situazioni sopra indicate.

Se la violazione del patto educativo nel menage genitoriale da parte di uno dei contraenti porta all’investitura di un giudice, ciò implica forse un rischio ed un pericolo: ossia l’opinabilità delle decisioni educative giudiziali, laddove le norme legate all’interesse del minore, ed in particolare le norme sulla potestà, risultano trasformate in norme procedurali, prive di un contenuto precettivo sostanziale e dirette a stabilire un procedimento come strumento di evidenziazione e definizione del contenuto di valori linguisticamente descritti; queste norme in realtà investono il giudice di un potere di scelta di fini, condizionato soltanto alla coerenza con il fatto di vita considerato.

Per cui, pure nella necessità di surrogare la funzione genitoriale dove questa è insufficiente, inesistente od addirittura di pregiudizio, vi è una lacuna legislativa quando è in discussione la gestione del menage genitoriale stesso, ed infatti è stato affermato che il giudice ha in realtà un potere sostitutivo illimitato rispetto ai genitori, che debbono nei fatti adeguarsi, per esempio, alle condizioni imposte dal Tribunale per i Minorenni. Così, paradossalmente, la stessa potestà del genitore simbiotico od autoalienante ne risulta svilita, in contraddizione con la riaffermata scelta legislativa di “affidare” la cura del minore ai genitori.

Si nasconde così la reale impotenza del diritto a regolamentare questo settore.

Allora si ribadisce che ci sono due strade in ipotesi di patologia del menage genitoriale derivante dal comportamento anche di un solo genitore: una vecchia, pubblicistica, ed una privatistica di autonomia privata che si avvale del mezzo privato di rieducazione.

Quella pubblicistica non può che essere repressiva verso uno od entrambi i contraenti-genitori in quanto ha il crisma di costrizione e, pertanto, raramente è dirimente e spesso inadeguata.

Mentre l’ipotesi di sanzione rieducativa appare sempre più adeguata se si tiene conto che il “primo beneficiario” sarà il minore mediante la ricostituzione di una armonia dei contraenti-genitori non necessariamente come coppia coniugale ma obbligatoriamente come coppia genitoriale.

Pertanto in ipotesi di intervento pubblico, essendo, come detto, la sanzione repressiva come tale impositiva di una volontà eseguibile diversa da quella del soggetto violatore – simbiotico o autoprogrammatore, nel caso che ci occupa – avremo un controllo giudiziale su di un accordo sovrano disciplinante l’educazione familiare, con la formazione di una dottrina statuale dell’educazione, con una dottrina precettiva di Stato sullo sviluppo della persona, ed un conflitto tra un’etica di Stato e l’effettivo interesse del minore, poiché così si andrà a creare un conflitto tra la volontà pubblica e la volontà del soggetto stesso, divenuto così sofferente esecutore della stessa volontà pubblica.

In questo senso la sanzione e quindi il potere pubblico che l’ha irrogata divengono strumenti inadeguati e, pertanto, il contratto genitoriale ha possibilità di compiutezza solo nella sua autonomia privata.

Non a caso è sempre più ricorrente parlare dell’utilità che potrebbe avere la formalizzazione della c.d. mediazione familiare. Per il suo essere istituto essenzialmente extragiudiziario, la mediazione familiare, infatti, da un lato, ha l’obbiettivo di attenuare, se non eliminare, i rancori ed i risentimenti che un processo giudiziario, invece, con ogni probabilità potrebbe enfatizzare od amplificare oltre una loro già gravità; dall’altro e conseguentemente, potrebbe contribuire al raggiungimento di una situazione di equilibrio e di interruzione per volontà stessa del genitore della situazione pregiudizievole per i minori, giungendo così forse ad una vera soluzione del problema.

Ma tornando al punto, conviene fare ancora alcune osservazioni circa la questione della “simbiosi e della autoalienazione genitoriale”.

In entrambi i casi siamo in ipotesi di un’operazione di condizionamento perpetrato sui figli – e noi lo abbiamo analizzato in due modalità contrapposte – quale fenomeno psico–relazionale che induce il minore al rifiuto di un genitore. Il danno scaturisce, in primo luogo, dal conflitto che il bambino deve gestire tra la forte traccia affettiva che pure è maturata e consolidata negli anni di rapporto con il genitore, e la necessità di allontanarlo o rifiutarlo sia nel caso del genitore che subisce il rapporto simbiotico sia nel caso del genitore autoalienante.

In secondo luogo, l’allontanamento del genitore in qualsiasi forma lo si veda, non significa proprio un condizionamento od una suggestione tale che i sentimenti negativi siano autentici ma, tali sentimenti, sono l’alternativa meno costosa dovendo scegliere a quale genitore fare riferimento, dato che nei casi sopra evidenziati non sembra essere ammesso il rapporto con entrambi. Ossia, in entrambi i casi analizzati il bambino si rifugia nell’unica alternativa possibile: un rifiuto.

In terzo luogo, la perdita di una figura genitoriale, ancor più in circostanze quali quelle di cui andiamo discutendo, è un fatto drammatico e tragico per il minore, molto peggio di un lutto vero, poiché si tratta di una visione fantasma del genitore che si perde ma che materialmente esiste e che, idealizzato interiormente e scotomizzato dalla figura reale, produce un continuo rimpianto di natura depressiva che non cessa mai anzi cresce col tempo di pari passo alla necessità di impiegare risorse sempre maggiori per tenere lontano il desiderio per il genitore reale, sempre presentificato dalla traccia affettiva di cui si parlava poco fa.

Una seconda osservazione, minoritaria ma del tutto trascurata, riguarda quanto detto più sopra circa le problematiche dei conflitti; al tal riguardo si consideri che nelle coppie di coniugi e di fatto, il conflitto stesso viene realizzato ed esercitato reciprocamente mediante la complessa metafora della gestione dei figli, dove questi assurgono alla funzione, a loro del tutto impropria, di veicolare in entrambi i sensi i carichi aggressivi dei genitori entrambi uno contro l’altro. È evidente che quando il carico si fa insopportabile per il bambino, questi sceglie la soluzione meno costosa, che consiste nell’accostarsi totalmente al genitore con cui deve convivere ed al quale deve appoggiarsi, sposandone la causa, pur tuttavia con le sofferenze che abbiamo appena detto qui sopra.

Pertanto, portandoci alle conclusioni, dobbiamo pensare innanzitutto ad una soluzione extra giudiziale ai fenomeni sopra indicati, eventualmente mediante la mediazione famigliare e comunque con la sensibilizzazione delle figure genitoriali ad una diversa responsabilità nella gestione del patto e degli obblighi educativi verso i figli.

Come estrema soluzione, quando tutti i tentativi dell’ambito personale siano ritenuti inutilmente esperiti, deve ritenersi necessario l’intervento sociale, ossia pubblico, mediante i suoi Istituti gestiti, ora come ora, dall’autorità giudiziaria. In questo, tra le categorie già acquisite a titolo di motivi di intervento, quali l’incapacità o l’inadeguatezza personale dei genitori, si devono includere necessariamente anche quei comportamenti che, pure in un contesto di efficienza personale nei confronti dei figli, hanno tuttavia caratteristiche di estrema dannosità, come appunto compendia la simbiosi genitoriale ed anche l’autoalienazione di cui andiamo discutendo. In tal caso deve essere possibile, a tutela del minore, sia l’interposizione di agenzie terze rispetto ai genitori sia, ove sia il caso, la previsione di un ristoro di qualsiasi natura per lenirne gli esiti negativi.

Infatti va precisato che la mediazione ha il crisma della volontarietà dei singoli, ovvero è essenziale che entrambi i soggetti in crisi vogliano farvi ricorso ovvero che tra loro vi sia l’accordo per cui la mediazione familiare quale strumento unico e contrattuale tra i singoli soggetti formanti la coppia e teso ad individuare l’accordo che stemperi od allievi od elimini la conflittualità essenzialmente in funzione dei compiti genitoriali nei confronti dei minori, necessita come detto dell’accordo dei singoli a perseguire tale strada.

Per cui in caso di mancanza di tale accordo si rende necessario uno strumento cui si può far ricorso per giungere ad una separazione concordata e riequilibrata della coppia in crisi ed in sede di separazione.

In questo caso all’interno della procedura giudiziaria ci viene in aiuto la CTU di matrice sistemica.

In queste situazioni una CTU psicologica sistemica ha un’importanza essenziale poiché assume il molteplice compito di essere:

– catalizzatore per l’attenuazione del conflitto, fino eventualmente ad esaurirlo,

– analizzatore delle ragioni essenziali e metaforiche del conflitto,

– istituzione di un ambito contrattuale per i contendenti.

Infatti, la figura del CTU psicologo sistemico rappresenta il terzo cui i membri della coppia, oltre alle relative famiglie allargate, rivolgono l’attenzione conflittuale nell’intento di assumerne la complicità ed averne conferma per le ragioni che ciascuno adduce. Ciò, tuttavia, consente di esercitare in un ambito istituzionale il litigio, esaurendone il maggior livello energetico e ponendo le basi per una irregimentazione contrattuale con la definizione dei criteri cui entrambi abbiano assunto l’impegno di adeguarsi.

All’interno di questo processo è possibile soprattutto individuare la ragione metaforica del litigio. È la conoscenza di questo secondo elemento-causa che può consentire di portare ad esaurimento il conflitto.

A fronte di ciò, il CTU psicologo sistemico è in grado di condurre il soggetto conflittuale, attraverso una contrattazione esercitata essenzialmente dalle parti, ad individuare soluzioni sufficientemente efficaci per entrambi, con una sedazione graduale del conflitto, verso una separazione ragionata in termini esclusivamente funzionali e collaborativi.

E, pertanto, oltre a fruirne i contendenti, i maggiori beneficiari sono indubbiamente i figli poiché, essendo estranei alle ragioni del conflitto, non possono esserne che soggetti totalmente passivi e soccombenti finché il litigio genitoriale permane anche dopo la separazione.

La CTU psicologica sistemica poi appare necessaria anche per la verifica delle condizioni evolutive dei figli, così anche per fugare dubbi circa possibili stati psicopatologici dei genitori e delle famiglie allargate degli stessi, eventualmente limitativi del benessere e dello sviluppo dei minori, risolvendo così anche i quesiti sollevati all’inizio.

In tal modo si risolverebbe anche l’utilizzo strumentale dei figli da parte di un genitore in ipotesi di simbiosi e di autoalienazione genitoriale in quanto grazie anche alla CTU sistemica si potrebbe evitare l’insorgere di problematiche di tipo psicologico nelle ipotesi in cui un genitore viene “escluso” dall’altro genitore dalla vita del proprio figlio o si escludesse da solo..

Per cui come estrema ratiol’uso siste­mico-relazionale della C.T.U.si impone come mezzo giuridico cruciale per la comprensione e l’intervento sul caso stesso oggetto della separazione e ciò attraverso il superamento della visione mera­mente individualistica dell’esperienza separatizia e dei suoi riflessi sul benes­sere delle persone coinvolte, partendo dagli adulti per giungere ai figli.

Viene così alla luce la necessità di dare risalto a ciò che va riequilibrato e per fare ciò occorre partire dalla storia familiare, di come nasce la coppia di come diviene poi coppia genitoriale dando vita al patto familiare con l’arrivo dei fi­gli, di come poi i figli in sede separatizia divengono strumenti del conflitto genitoriale la cui soluzione può arrivare solo attraverso un lavoro comune di tutti i professionisti che si occupano per le loro competenze della disgregazione familiare.

E grazie a tale strumento ad esempio si può giungere a rendere pratica la sopra indicata proposta in ipotesi di simbiosi genitoriale che il minore venga allontanato dal gruppo famigliare di appartenenza – genitore simbiotico e di lui famiglia allargata – per essere collocato presso una famiglia affidataria, o ancora meglio in una istituzione scolastica residenziale da cui raggiungere i due genitori alternativamente nei fine settimana, almeno durante l’anno scolastico -un periodo che, prevedibilmente della durata di due anni, potrebbe essere sufficiente a “disintossicare” il minore dalle induzioni descritte.

Avv. Erasmo Avella